“Pronto, pronto? Non ti sento più… Non seeento… tut-tut-tut”.

Quando un collega di un ufficio stampa mi chiede il telefono cellulare di un giornalista, lo ammetto, mi viene l’orticaria. Quando me lo chiede un cliente, l’istinto è simulare un disturbo sulla linea telefonica e mettere giù.

Se sono fortunato e la richiesta mi viene fatta al telefono. Se siamo vis-a-vis, allora la situazione è molto più complessa.

Le alternative sono poche:

  • Simulare un infarto. Ma poi bisogna che i paramedici mi reggano il gioco. E poi la denuncia per procurato allarme? No, meglio lasciare perdere.
  • Far finta di non aver capito la domanda. Ma quante probabilità ci sono che di fronte a me ci sia un sensibilone che comprende la situazione e sorvoli. No, più probabile che ripeta la richiesta, e allora mi troverei nella condizione di sembrare un idiota, e perdere il cliente, o spaccargli la faccia, e perdere il cliente. Non va.
  • Creare un diversivo. Per esempio, rovesciare tutto quello che c’è sulla scrivania in un impeto di goffaggine. Sembrerei un idiota, e perderei il cliente.
  • Fingere di ricevere una telefonata. Può funzionare, a patto che il cliente non sia campione mondiale di pervicacia, e ripeta la richiesta una volta conclusa la (finta) telefonata. A quel punto, gli spaccherei il telefono in testa, quindi perderei il cliente e il telefono. Peggio che andare di notte.
  • Spiegargli gentilmente i motivi per cui non posso darglielo, cioè che i miei contatti sono il mio valore aggiunto, che molti sono in grado di scrivere un buon comunicato stampa, molti meno sono coloro che possono scrivere un buon comunicato stampa, decidere insieme al cliente come costruire la comunicazione e recapitare il tutto alla persona giusta in redazione. Le persone che conosco sono frutto di una vita di lavoro, di nottate condivise in redazione, di trasferte interminabili in posti persi nel nulla dai nomi impronunciabili, di una reciproca stima. Che inevitabilmente perderei se dessi via il loro numero come coriandoli a carnevale. Secondo voi, capirebbe? Secondo me, no.

Perché? Perché il cliente, così come il collega, si considera sempre unico ed eccezionale. E in realtà, il cliente, per me lo è. Unico ed eccezionale, intendo. Sì, perché mi ha dato fiducia e ha scelto me per un lavoro delicato, quello di presentarlo.

Ma è proprio per questo che non posso dargli i miei contatti: non soltanto perché se glieli dessi lui potrebbe (più) facilmente sostituirmi, ma soprattutto perché se glieli dessi, le persone che lui chiamerebbe non lo ascolterebbero, perché non lo conoscono, e smetterebbero di ascoltare anche me quando li dovessi chiamare, successivamente, per conto suo. Poi, ovviamente, smetterebbero di ascoltare me tout-court. Perché le persone non amano chi aumenta gratuitamente i loro fastidi. E liberarsi di una telefonata indesiderata, indubbiamente è un fastidio.

Quindi, cosa fare quando ti senti chiedere: “Scusa, mi daresti il numero di tizio o caio?”.

Dipende, da chi sono tizio o caio e chi è che ti sta chiedendo il numero. La soluzione migliore sarebbe quella di non mettersi mai nelle condizioni di farsi chiedere i numeri. Poi, se è un collega di un ufficio stampa, in genere gli do quello della redazione, ma il cellulare mai. Già che gli abbia dato il nome, è grasso che cola. Se è intelligente, capisce. Se è un cliente, prego che sia intelligente. Se non lo è, mi consolo pensando che l’avrei perso comunque. Tanto era acerbo…

E voi? Chiedete i numeri di telefono ai colleghi? E, se ve li chiedono, li passate?

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