Bici, treno, giornalisti e…

Stamattina ero in treno. Bagnato dalla pioggia, ma orgoglioso, come tutti i giorni, anzi più di tutti i giorni proprio perché bagnato come un pulcino, della mia scelta di andare a lavorare in bicicletta e treno.

Nonostante l’umido, nonostante abbia dimenticato i guanti, nonostante i ritardi dei treni e l’affollamento. Una piacevole euforia, interrotta da un gruppo di viaggiatori che, comodamente allargati sulle panche dello scompartimento riservato alle biciclette, hanno cominciato a chiacchierare additando la mia fida, bagnata e un po’ malconcia bici pieghevole.

“Dovremmo comprare una bici così”, dice lui

“Sì, però poi dobbiamo schivare gli automobilisti che tentano di accopparci”, dice lei

“Come in un videogioco”, aggiunge l’altro

“Eh sì – conferma lui -, pensa che vicino a casa mia la pista ciclabile ha un cartello di inizio e di fine a ogni portone, ma poi termina nel nulla, obbligandoti ad andare sulla strada, appena fuori dal paese”.

“Mah, sapete, io sono pro bici…” attacca lei, e io già aspetto con ansia il “ma” successivo. Come quando si dice “Non sono razzista, ma…”

E infatti: “…ma detesto quando viaggiano dove non devono, per esempio sui marciapiede, oppure sotto i portici. A volte sono proprio invadenti e non rispettano le regole”.

Lui e l’altro, convinti o servi della gleba a testa alta che siano, annuiscono con forza, muggendo la loro approvazione.

BANG!

Come se mi avessero dato un pizzicotto. O un calcio nel sedere a tradimento. Lei deve avere intuito vagamente il mio disagio, perché senza parere si è avvicinata all’uscita, come per mettersi in coda in attesa della stazione.

E fa bene a scappare.

Perché la sua persona occupa un vano riservato alle bici, la sua Louis Vuitton vera come una banconota da 30 euro pende da un gancio destinato alle bici, il suo deretano sta appoggiato su un sedile destinato ai proprietari delle bici, il suo zainetto di (finta) pelle pende da un altro gancio per le bici e con lui e l’altro mi costringono a bilanciare me stesso e la mia bici senza potermi attaccare a nessun sostegno, nonostante le frenate del treno minaccino di gettarmi a terra.

Non so cosa mi tenga.

E infatti non mi tengo. Accidempolina, va bene la storia della trave e della pagliuzza. Però… A tutto c’è un limite.

C’è? Ci dovrebbe essere, ma non c’è. Come non c’è in tante cose. Abbiamo un po’ perso il senso della misura, della realtà, la capacità di essere critici con noi stessi prima che con gli altri, di vedere se, prima di delirare sulle mancanze altrui, non ce ne siano altre, a noi imputabili, che le hanno scatenate.

Esempi ce ne sono, a bizzeffe. Per esempio, è da un po’ che chi fa ufficio stampa teme di postare gli articoli scansionati che riguardano i propri clienti sui social. Perché ci sono alcuni giornalisti pronti a sparare ad alzo zero, appellandosi al diritto d’autore, al fatto che diffondere gratuitamente contenuti che sarebbero a pagamento è un furto bello e buono, che così facendo non si dimostra rispetto per gli altri, che il settore è in crisi e molti colleghi rischiano o hanno perso il posto e così si dà il colpo di grazia al sistema.

Tutto vero. Comprensibile. A parte il fatto che se il sistema è in crisi, le testate chiudono, i giornali vendono meno copie, l’informazione è soffocata da internet, non è certo da ascriversi a quegli uffici stampa che pubblicano i ritagli dei loro clienti (il più delle volte si tratta, tra l’altro, di brevi). Anzi… Certo, anche in questo caso a volte si esagera, pubblicando pagine intere, ma basta anche un semplice, educato, appunto in privato, invece della gogna pubblica. A volte anche condita con apprezzamenti pesanti.

Che c’entra tutto questo con la storia della bici e della pagliuzza.

C’entra. Perché è più comodo pensare che la colpa della crisi dell’editoria sia degli editori, di internet, di Zuckerberg, di Amazon, degli alieni, financo di quei poveri cristi che postano i ritagli, piuttosto che di se stessi. E’ comodo dare dell’incapace a un’altra persona, piuttosto che guardare ai danni causati dalla propria inadeguatezza.

Eppure questa inadeguatezza è lampante: lo dimostra il calo delle vendite, lo dimostra la mancanza di fiducia, lo dimostra la differenza con altri Paesi dove l’informazione è libera davvero e i lettori lo sanno, e si fidano. Lo dimostra, ahimè, il fatto che le notizie sul Russiagate sono state pubblicate sul NYT o su altre testate giornalistiche, mentre, in Italia, se vogliamo vedere un po’ di ciccia, e non minestre riscaldate, dobbiamo sintonizzarci su “Le Iene” o su “Striscia”. L’informazione, quella vera, diventa farsa, mentre la farsa delle notizie precotte, del commento spacciato per notizia, diventa informazione tradizionale.

E i giornalisti in tutto questo? Si accontentano, si barcamenano, accettano di omologarsi, di vivere di piccole cose, di non prendere buchi dalla concorrenza, senza però trovare la forza per ricordarsi che essere giornalisti significa andare alla ricerca della notizia. Troppo spesso nelle redazioni, anche di testate importanti, gli unici che portano notizie sono quelli pagati 3 euro a pezzo. No, non è un refuso: 3 euro.

Troppo spesso la spocchia non è giustificata da reale talento, da altrettanta qualità, a volte, perfino, da un uso adeguato della lingua italiana.

Se i pezzi più letti di quotidiani tra i più venduti sono gli eleviri in prima pagina, qualche domanda bisognerebbe avere il coraggio di farla, a se stessi prima che ai propri lettori.

Ai molti amici giornalisti piccati dall’abitudine di postare i ritagli voglio dare una rassicurazione: non posterò più ritagli prima di mezzogiorno, nonostante i clienti si inviperiscano se non lo faccio, ancora legati ad una visione romantica dei quotidiani (fa figo l’articolo sul giornale), in parte perché in effetti spesso si esagera coi ritagli, ma anche perché la sostanza del nostro lavoro è un’altra, non nasce e non muore in un ritaglio sui social. Però la mia preoccupazione è un’altra: fino a quando ci saranno ritagli da postare?

Basta guardare al dito, quando il saggio indica la luna. Criticare i ciclisti, quando si sta commettendo un abuso nei loro confronti, non fermerà le bici, ma ci permetterà senz’altro di fare la figura dei fessi.

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