Lottatori di Taekwondo messi al tappeto da un hashtag
Se pure i tremendi lottatori di Taekwondo devono arrendersi, è proprio vero che la rete spadroneggia e che, quando la rete decide, non si può che abbozzare e inchinarsi.
In effetti, la novità ha il gusto dello sconveniente e il retrogusto piccante del vedere i marcantoni, scornati, costretti a fare marcia indietro. Insomma, la World Taekwondo Federation cambia nome: da sabato 24 giugno, san Giovanni, patrono dei fabbricanti delle forbici, delle spade e dei coltelli, degli albergatori, di pellicciai, sarti e conciatori di pelli, dei cardatori di lana e dai oggi dei lottatori grossi ma un po’ sfigati, si chiamerà World Taekwondo.
La ragione è semplice e, insieme, complicata e affonda le sue radici in uno dei misteri più misteriosi di internet, l’hashtag, annodandole con uno dei misteri più misteriosi delle lingue neolatine, l’acronimo. Prendendo le iniziali del nome della Federazione, infatti, esce la sigla WTF: nulla di compromettente, in apparenza, molto simile alla pletora di federazioni della boxe e degli sport di lotta, WBO, WBA, FIKBMS, WBC e chi più ne ha più ne metta.
Ma… C’è un “ma”, grosso come una casa e duro come un tatami.
Quando l’acronimo si scontra con il gergo della rete, però, è come se avesse preso un diretto in pieno volto: va al tappeto, senza appello. Perché #wtf si usa come acronimo di un ben più prosaico, seppure sempre violento, “ma che ca…volo” o, in inglis, “what the f**k”. Troppa confusione, troppi tweet e post che non c’entravano nulla con il Taekwondo, dignitosa e rigorosa disciplina olimpica, in cui l’Italia, tra l’altro, ha una meravigliosa e vincente tradizione, troppa volgarità associata a un acronimo che non lasciava scampo. E la federazione internazionale ha scelto di fare un gesto che ai lottatori resta sempre stampato indelebilmente nei ricordi, cioè gettare la spugna, simbolo universale di resa sportiva.
Senza incassare un Jumok Jirugi (o pugno nel linguaggio dei semplici), la Federazione Taekwondo elimina la parola che indica il suo stato, cioè Federation, dal suo nome. Una scelta radicale, ma obbligata, perché i vertici della WT(F) hanno deciso che è più importante tenere l’accento sul radicamento globale, mantenendo la parola “world”, mentre a Taekwondo proprio non si può rinunciare. Un mezzo disastro, insomma, a cui però la WT ha messo una toppa, conservando l’identità e non imbarazzandosi troppo, ma che rischia di espandersi come un’epidemia.
Che cosa succederebbe se il gotha del calcio decidesse che la paura, o fifa, non deve entrare nel mondo pallonaro, neanche dalla porta di servizio di internet e togliesse qualche lettera dal suo logo?
E se la federazione internazionale automobilistica si accorgesse che #FIA, in una regione molto popolosa del nord Italia, indica sì un oggetto del desiderio del pubblico maschile, ma non a quattro ruote? Uhm, e che di dire di #FCA?
Insomma, da internet potrebbe arrivare una ventata di rivoluzione per il mondo dello sport e dell’industria. Ma, scherzi a parte, la scelta obbligata di WT(F) ripropone, caso mai ce ne fosse bisogno, la riflessione sul dominio della rete circa i contenuti e sulla policy dei social network su testi e significati dei post: è giusto che lo sport, con tutti i valori che porta con sé, debba inchinarsi al gergo e alla volgarità, mentre le mamme che postano immagini dell’allattamento vengano quasi sempre inderogabilmente bannate? Ai post(eri) l’ardua sentenza.