Il “lavoro pagato in visibilità” è cosa buona e giusta.
Bene, ora che ho ottenuto l’attenzione di tutti con l’affermazione-bomba (piano, voi, iene: vi sento salivare da qui e non è elegante) possiamo iniziare ad affrontare questo spinoso e annoso tema in maniera seria.
Il “pagamento in visibilità”, tecnicamente, è baratto: pertanto non è, di per sé, illegittimo.
In “cambio merce” si acquista ormai qualunque cosa e non ci sono ragioni valide per le quali la promozione di se stessi debba fare eccezione. E infatti eccezione non fa.
Aggiungete che lavorare per l’autopromozione, della quale la visibilità è parte integrante, non solo è lecito, ma fortemente consigliato; considerate che, magari, chi ci commissiona quel tale lavoro può aprirci mercati per noi appetibili e diversamente preclusi; e capirete bene come talvolta quella “visibilità” sia un prezzo più che adeguato per il nostro “lavoro”.
Il problema sono tutti gli altri casi: quando cioè il “pagamento in visibilità del lavoro” si configura come un puro e semplice sopruso. E questo avviene, ahinoi, nella stragrande maggioranza delle volte.
Possiamo definire iniquo uno scambio lavoro-visibilità quando si verifica almeno una delle tre seguenti situazioni:
- Il “pagamento in visibilità” non è condiviso, ma imposto grazie a uno squilibrato rapporto di forze («O così o niente»; «Noi siamo la prestigiosa azienda *** e tu un ragazzino appena uscito dall’università»);
- Il “pagamento in visibilità” è conseguenza dello svilimento della qualità (anzi: della natura) del lavoro della controparte;
- Il “pagamento in visibilità” non è direttamente proposto alla controparte, ma veicolato attraverso una terza parte in condizione di debolezza.
Meritano un commento ulteriore gli ultimi due punti.
Quella della quale stiamo ragionando è una piaga che affligge quasi esclusivamente il mercato dei lavori cosiddetti creativi: non sono molti gli elettricisti o gli idraulici che si lamentino di aver ricevuto proposte di “pagamento in visibilità”, mentre abbondano videomaker, fotografi e copywriter nella stessa situazione.
In tutto ciò concorrono almeno due elementi, uno congiunturale (la “crisi”, passepartout utilizzato per giustificare ogni bruttura) e uno culturale (in troppi ritengono che il lavoro creativo richieda meno fatica di un qualsiasi altro lavoro e che dunque non sia lavoro a pieno titolo). Ed ecco il risultato:
Fai un lavoro figo. Anzi, non è proprio un lavoro, dài. Mica vorrai pure essere pagato in denaro.
E poi, a corollario, arriva puntuale la domanda odiosa:
Ma di primo lavoro che cosa fai veramente per campare?
Ancora: non ci siamo ancora emancipati dalla maledizione della “Genesi”, secondo la quale il lavoro è “gran sudore” (e patimento, ed espiazione); e dunque chi prova gratificazione o soddisfazione o addirittura – abominio! – divertimento in quello che fa non sta in senso stretto lavorando.
Per quanto riguarda il terzo punto, un esempio concreto si rende necessario. Quando lavoravo come account presso una nota agenzia torinese, un cliente tedesco (noto per la sua integerrima correttezza) commissionò all’agenzia la realizzazione di un video. Ecco il riassunto del brief:
Ci serve una clip. Ci serve in fretta. Non abbiamo budget. Trovatemi qualcuno che ce lo faccia gratis in cambio del prestigio di aver lavorato per noi.
Tutto questo, ovviamente, sotto data di scadenza di contratto. L’agenzia accettò l’implicito ricatto, per non creare tensione con il cliente prima del rinnovo. L’agenzia ci mise la faccia e il noto brand *** ottenne il video richiesto “in cambio di visibilità”, avendo delegato il lavoro sporco e avendo mantenuta intonsa la propria reputazione di teutonico fair play. Il delitto perfetto.
E voi? Vi è mai capitato di proporre, o di richiedere, “lavoro pagato in visibilità”? Raccontateci le vostre esperienze.
Andrea Donna
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