Si sa, i bimbetti amano farsi i dispettucci. E, quando a forza di farsi i dispettucci finiscono entrambi spalmati in una pozza di fango, se ne vanno in giro tutti tronfi a mostrare le zacchere sui vestiti e sulla faccia. Perché per i poppanti, come per i politici, i panni sporchi non si lavano in famiglia.

Volete un esempio? Il buon vecchio Donald Trump, il re del trash presidenziale, che si azzuffa sui social con il re dell’horror, Stephen King. Una miscela da fare accapponare la pelle. E infatti tutto finisce puntualmente in cagnara, con Donald Trump che scazzotta malamente Stephen King fuori dal suo profilo twitter, bloccandolo, e lo scrittore che ci resta talmente male al punto di sfogarsi sui social (“non mi resta che togliermi la vita”) perché l’amichetto dispettoso lo ha privato del suo diletto preferito, quello di farsi dileggiare. In tutto questo, non può mancare il delicato intervento femminile, con J.K. Rowling, geniale autrice del primo Starbuckster, romanzo da caffetteria, Harry Potter, pronta a dimostrarsi campionessa della lotta infantile nel fango, che accorre in sostegno del collega scrittore.

Brividi. Ma non di terrore. O forse sì.

Non può mancare, ahinoi, nemmeno l’intervento della stampa che si getta a capofitto nel resoconto del duello rusticano a colpi di tweet: dal sobrio Time, al più frizzante Daily Telegraph, fino anche ai giornali italiani, La Stampa, essenziale nella sua esposizione, Repubblica, che per non sbagliare pubblica la traduzione dell’articolo del Telegraph, ed europei. In particolare, sorprenderà sapere che anche Marie Claire dedica un pezzo alla questione, informando le sue lettrici che siano appassionate di sport a stelle strisce, in particolare quelli che si disputano nel fango. Se volete leggerlo, e ve lo consiglio, lo trovate qui.

Nell’articolo, l’approccio originale è dato dalla disamina del diritto del presidente americano di bannare un utente dal suo profilo privato (nella fattispecie @realdonaldtrump) piuttosto che da quello ufficiale (@potus, inaugurato con grande successo da Obama): la questione è interessante e la risposta, purtroppo, vagamente superficiale, in quanto si considera legittimo il diritto di bloccare un utente su un profilo personale, mentre si lascia qualche dubbio per quanto concerne il profilo istituzionale, essendo legato alla carica e come tale soggetto al controllo di tutti. Per quanto molto apprezzabile nel tentativo di elevare la questione dalla mera cronaca sportiva dei ghiribizzi nel fango, il testo di Marie Claire ha una lacuna che appare incredibile: non dice da quale dei due profili sia stato bannato il buon Stephen King. Il che toglie buona parte del sale al discorso: se, infatti, come siamo portati a pensare partendo dall’iperattività di Trump, il ban riguardi il profilo personale, la situazione si sgonfia subito, tornando al rango del dispettuccio tra amichetti. Se, invece, il ban riguarda il profilo istituzionale, allora la vicenda assume ben altri contorni. Peccato che nessuno chiarisca il dubbio: né l’articolo di Marie Claire, né Trump, né lo stesso King, che ovviamente se ne guarda bene, perché il dubbio gli conviene assai.

Morale: val la pena dare una notizia, scavando anche quel tanto che basta per trovare il bandolo della matassa, senza peraltro dipanarlo, oppure di fronte all’incompletezza delle proprie informazioni, e l’impossibilità di approfondirle, per palese carenza delle fonti, sarebbe necessario fare un passo indietro e accettare che certe notizie, pur essendo effettivamente notizie, sono per noi fuori portata, e non pubblicarle?

Da sempre rispondere a questa domanda è il problema maggiore dell’etica giornalistica: è una notizia? Se lo è, è anche completa? Se è una notizia, ed è completa, è anche vera? La mia modesta opinione, è che prima di pubblicare il giornalista, o chi “passa” i pezzi, deve fare di tutto per accertarsi che la notizia sia una notizia, sia completa e sia anche vera. A meno di errori e imponderabili a cui, in quanto esseri umani, non possiamo non essere soggetti.

In questo caso, mi spiace, ma la notizia è (più o meno) una notizia, è senza dubbio vera, ma non è completa. Quindi io non l’avrei pubblicata. O perlomeno non così. Leggete l’articolo sul Washington Post e trovate le differenze. Non le vedete? Io sì: discutiamone…