Se la comunicazione è inFelipe: errori tra Catalogna e legge elettorale

Il dibattito è aperto: vigente ancora, per ora, la libertà di parola, chi è in disaccordo con l’analisi che segue non sarà tacciato di reato d’opinione, anzi sarà tanto più apprezzato quanto più originali e approfonditi saranno i suoi commenti.

La palla è mia, perciò o si gioca con le mie regole, o me la porto via e non gioca più nessuno”: il ragazzino arrogantello che ricatta i suoi amichetti al parco giochi è una figura che tutti speriamo di aver lasciato alle nostre spalle una volta esaurita la pubertà, ma che puntualmente si ripresenta anche nella vita adulta, calzoncini e maglietta rimpiazzati da paludamenti gessati abbinati, sempre, a cravatta rossa, il colore del potere.

La politica del celoddurismo
Si sarebbe portati a pensare che in personalità educate e aduse al potere e alla responsabilità il tentativo di staccarsi dai biechi istinti primordiali da scugnizzi sia più intenso ed efficace che nell’Uomo Qualunque, ma la realtà ci propala ogni giorno chiare e innegabili evidenze del contrario. In sintesi, la gara a chi sputa più lontano, altrimenti detta celoddurismo, è una competizione che annebbia le menti più attente alla gestione del potere, causando cadute di stile comunicative che sono invero epici capitomboli.

Ahi ahi come sono inFelipe!
Beati i tempi in cui i reali avevano la R maiuscola ed erano presenze sempre rassicuranti e (quasi) sempre in grado di offrire la soluzione adeguata alle problematiche della nazione. Ora non più. Noi italiani l’abbiamo imparato da tempo, ora tocca anche a sudditi stranieri di dinastie blasonate e antiche. Nel caso della lotta per l’indipendenza della Catalogna, in un momento difficile e particolarmente denso di incognite, il re Felipe di Borbone ha opportunamente scelto di rivolgersi al suo popolo. Opportuna la scelta, molto meno l’esecuzione: sia che a scrivere il discorso sia stato chiamato Antonio Di Pietro, sia che il timore per l’incognita catalana abbia convinto tutti della necessità di misure draconiane, la comparsa in televisione del re spagnolo ha avuto il sapore di un clamoroso autogol comunicativo. Il re ha usato parole e toni durissimi, da capo di un governo autoritario, quale non è, e non da simbolo dell’unità nazionale e del benessere dei suoi cittadini.

Comunicare qualcosa usando bastone e carota è meglio che farlo usando bastone e bastone

Posto che le rivendicazioni catalane avevano più l’aria di una boutade populista che di un vero e proprio tentativo, assodato che in Catalogna risiedevano e risiedono molte forze unioniste, nascoste ma non per questo meno decisive, meglio avrebbe fatto il re a fare un discorso da papà e non da padre e padrone, autorevole e non autoritario, risoluto ma non sprezzante, rivolgendosi ai suoi cittadini “fedeli” assicurandoli che la Spagna non li avrebbe abbandonati, che avrebbe lottato al loro fianco perché insieme si è più forti e perché la ragione e soprattutto la ragionevolezza stavano indubbiamente dalla loro parte. Avrebbe dovuto rivolgersi ai cittadini indipendentisti, mostrandosi sì risoluto nelle scelte, ma conciliante nei toni, promettendo di stringerli tra le braccia una volta che fossero tornati, figlioli prodighi, nella casa paterna, ricordando loro le tante cose in cui la Spagna eccelle, le furie rosse, Lorenzo, Pedrosa, Vinales, e chiamandoli orgogliosamente a non vanificare questa supremazia, stretta parente dell’unità nazionale.

Semplice, no?
Manco per niente. Felipe ha fatto il Rajoy, riuscendo peggio dove il suo primo ministro già aveva fatto male. Rispondere alle istanze pacifiche con la violenza e il pugno di ferro funziona soltanto se si è in grado di calare davvero quel pugno di ferro. Meno male che dall’altra parte c’è Puidgemont: una bella gara tra strateghi di alto livello. Quando non si può, e non si deve, usare la forza, allora la comunicazione è tutto: sbagliare perfino scelte elementari è un bel modo per perdere.

E in Italia? La comunicazione viaggia a fari spenti

 

Non passano che poche ore e in Italia si deve votare la legge elettorale. E qui, ancora una volta, la politica tocca una delle vette più alte. Qual è la scelta del governo? Massì, mettiamo la fiducia, così ci togliamo la rogna. Insomma, o mangiate la minestra, oppure saltate dalla finestra, cioè accettate di andare a votare con una legge con cui, quasi sicuramente, vincerà il M5S. Va bene tutto, per carità, tanto alla fine i partiti trovano il modo per fare eleggere chi deve essere eletto qualunque sia la legge elettorale, ma resta il fatto nodale che in democrazia le regole del gioco devono essere discusse e condivise.

La politica del “il pallone è mio e me lo porto via se non si gioca con le mie regole”, che in Transatlantico significa fiducia sulla legge elettorale, è quanto di più antidemocratico esista. Che cos’è la democrazia se non la scrittura condivisa delle regole del gioco, l’accettazione comune che tutti si debba rinunciare a una parte delle proprie prerogative per ottenerne un’altra parte e soprattutto che un certo livello di soddisfazione personale sia raggiungibile con il consenso di tutti più di quanto non sia la totale soddisfazione personale solo con le proprie forze? La democrazia è condivisione di regole e obiettivi, è una convinzione comune, è il diffuso sentire dei cittadini. Le regole dalla scrittura delle quali una parte è consapevolmente esclusa sono tutto, ma non democratiche. Con buona pace di Machiavelli, in questo caso il fine non giustifica i mezzi: se non siamo in grado di stare alle regole per scrivere le regole, non ci meritiamo l’autodeterminazione.

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